Attenzione alle istanze in autotutela: possono rivelarsi uno strumento di difesa inefficiente e addirittura pregiudizievole se l’ente non risponde.
La mancata risposta all’istanza in autotutela (per esempio istanza di sgravio) presentata al Fisco o all’agente della riscossione non è impugnabile. L’indirizzo giurisprudenziale si sta infatti consolidando nel senso di ritenere l’autotutela un atto discrezionale dell’ente e non un atto dovuto per la tutela del contribuente. Ne discende l’esclusione dall’ambito degli atti impugnabili dinanzi al giudice.
Da ultimo la Cassazione ha ribadito che l’autotutela tributaria (analogamente a quella del diritto amministrativo generale) costituisce un potere discrezionale esercitabile d’ufficio, non già uno strumento di protezione del contribuente. Quest’ultimo può solo sollecitare l’esercizio, ai fini della rimozione di una pretesa illegittimità dell’atto impositivo, senza che ciò attivi automaticamente un procedimento da definire con provvedimento espresso. Non sussistendo un obbligo dell’amministrazione dipronunciarsi sull’istanza di autotutela, l’eventuale silenzio su di essa non può qualificarsi giuridicamente, per gli effetti che qui ne occupano, un diniego, come tale contestabile in sede giudiziale.
Il silenzio all’istanza in autotutela non è impugnabile
Tale orientamento può dirsi ormai incontestabile per effetto della recente pronuncia della Corte Costituzionale che abbiamo analizzato qui: Autotutela tributaria: il Fisco non è tenuto a rispondere.
Nella disciplina legislativa e regolamentare dell’autotutela tributaria è previsto che l’amministrazione finanziaria può annullare d’ufficio i propri atti illegittimi o infondati anche in pendenza di giudizio e anche se si tratta di atti non impugnabili e che, in caso di «grave inerzia» dell’ufficio che ha adottato l’atto illegittimo, può intervenire «in via sostitutiva la Direzione regionale o compartimentale dalla quale l’ufficio stesso dipende».
Secondo la giurisprudenza, l’autotutela tributaria costituisce un potere esercitabile d’ufficio da parte delle Agenzie fiscali sulla base di valutazioni largamente discrezionali, e non uno strumento di protezione del contribuente. Il privato può naturalmente sollecitarne l’esercizio, segnalando l’illegittimità degli atti impositivi, ma la segnalazione non trasforma il procedimento officioso e discrezionale in un procedimento ad istanza di parte da concludere con un provvedimento espresso.
L’autotutela tributaria non ha quindi carattere doveroso. In altri termini, non esiste un dovere dell’amministrazione di pronunciarsi sull’istanza di autotutela e, mancando tale dovere, il silenzio su di essa non equivale ad inadempimento.
Inoltre, il silenzio stesso può essere considerato un diniego, in assenza di una norma specifica che così lo qualifichi giuridicamente, con la conseguenza che il silenzio dell’amministrazione finanziaria sull’istanza di autotutela non è contestabile davanti ad alcun giudice.
Autotutela o riscorso? Cosa rischia chi non ha impugnato l’atto in tempo
Molto spesso chi riceve un atto fiscale o una cartella illegittimi confida nella soluzione “bonaria” offerta dall’istanza in autotutela (per esempio istanza di sgravio o istanza di sospensione della riscossione) e preferisce non azionare il ricorso per risparmiare tempo e soldi.
Tale scelta può rivelarsi la più felice o la più sbagliata ma tutto dipenderà dall’imprevedibile risposta del Fisco/Agente della Riscossione. Non è detto infatti che l’ente accolga l’istanza in autotutela, anzi non è neppure detto che risponda. E se nel frattempo sono spirati i termini di impugnazione (piuttosto ristretti, 30 o 60 giorni a seconda del credito intimato) il provvedimento diventa definitivo senza possibilità di contestazione.
Se, infatti, come appena visto, il silenzio all’istanza in autotutela non è impugnabile, così come non lo è il rigetto dell’istanza, il contribuente si ritrova con un provvedimento non più annullabile e non più contestabile. Un vuoto di tutela approvato dalla Corte Costituzionale e dalla Cassazione e forse giustificato dall’impossibilità di derogare alle rigide decadenze fissate dalla legge per i ricorsi giurisdizionali.