Quando vare ricorso contro la cartella di pagamento: tra i vizi propri vi è l’assenza di trasparenza sugli interessi e la decadenza.

Il mancato pagamento della cartella esattoriale dell’Agenzia Entrate Riscossione porta, in gran parte dei casi, al pignoramento e/o all’adozione di una misura cautelare (ipoteca o fermo amministrativo). Tuttavia, se il contribuente esperisce tempestivamente il ricorso al giudice (ricorso da depositare entro 60, 40 o 30 giorni a seconda che si tratti di imposte, contributi Inps e Inail o multe stradali), c’è la possibilità di ottenere, nelle more del procedimento, la sospensione dell’esecutività della cartella e, all’esito del giudizio, l’annullamento. Questo significa che si può evitare di pagare. Ma attenzione: ciò che spesso si dimentica è che, una volta arrivata la cartella esattoriale sono ormai scaduti i termini per fare ricorso contro il merito del tributo o della sanzione (ad esempio sui criteri di calcolo o sull’obbligo di pagamento); il ricorso doveva essere infatti esperito non appena giunto l’avviso di pagamento della pubblica amministrazione (ad esempio un accertamento dell’Agenzia delle entrate, un’intimazione di pagamento dell’Inps, la multa del Comune, la richiesta di versamento del bollo auto della Regione). Ma allora come fare ricorso contro la cartella esattoriale? Semplice: l’unico modo per contestare la cartella notificata da Agenzia Entrate Riscossione è impugnare i cosiddetti «vizi propri», ossia gli errori commessi con la cartella stessa che, in gran parte dei casi, sono errori formali. Il più delle volte si tratta della indicazione non corretta dei criteri di calcolo degli interessi. Su questa scia, già calcata dalla Cassazione, si inserisce una interessantissima sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Isernia [1]secondo cui la cartella di pagamento deve riportare la data finale in base a cui è stato operato il calcolo degli interessi addebitati. Ma procediamo con ordine e vediamoquando non si deve pagare la cartella esattoriale.

Come contestare la cartella di pagamento: il difetto di motivazione

La cartella di pagamento deve essere, innanzitutto, motivata. «Motivata» significa che deve indicare al contribuente le ragioni della pretesa tributaria, non fosse altro con il semplice richiamo dell’atto presupposto, a lui già notificato, con cui gli viene richiesto il pagamento del tributo o della sanzione.

L’obbligo di motivazione della cartella viene sancito dallo Statuto del Contribuente. In esso si stabilisce che [2] «Sul titolo esecutivo [ossia, sulla la cartella di pagamento, n.d.R.] va riportato il riferimento all’eventuale precedente atto di accertamento, oppure in mancanza, la motivazione della pretesa tributaria». Anche la legge sul procedimento amministrativo [3] impone a tutti gli atti della pubblica amministrazione la motivazione(lo devono essere anche le stesse sentenze) onde garantire trasparenza nei confronti del cittadino. A questa regola non fa eccezione neanche la cartella di pagamento che, pertanto, va motivata: lo deve essere sia nel caso in cui essa costituisca solo l’ultimo degli atti di un procedimento di accertamento e irrogazione della sanzione nei confronti del contribuente (in tal caso, la motivazione della cartella potrà limitarsi a richiamare i precedenti atti notificati), sia quando si tratti di ruolo non preceduto da un preventivo accertamento (in tale ipotesi l’obbligo di motivare in modo rigoroso la pretesa richiede la precisa e analitica indicazione dei presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato l’iscrizione a ruolo).

La Cassazione ha detto [4] che l’ente impositore ha sempre l’obbligo di chiarire nella cartella esattoriale, sia pure in modo succinto, le ragioni – intese come indicazione sia della mera causale che della motivazione vera e propria – dell’iscrizione a ruolo dell’importo preteso, in modo da consentire al contribuente l’esercizio del diritto di difesa.

Come contestare la cartella di pagamento: gli interessi

Secondo la giurisprudenza, l’obbligo di motivazione della cartella si estende anche all’indicazione dei criteri di calcolo degli interessi. Più volte la Cassazione [5] ha detto che se l’Agente della Riscossione non specifica come è avvenuto il conteggio degli interessi, indicando l’aliquota applicata per ciascun anno, non sono quantomeno dovuti gli interessi stessi (più rare sono le sentenze che annullano l’intera cartella). Al contrario, le cartelle indicano spesso, nel dettaglio, un unico importo comprensivo di capitale (il tributo o la sanzione) e gli interessi (quelli conteggiati dal giorno in cui il pagamento doveva essere eseguito a quando è stata notificata la cartella stessa). Questo sistema però impedisce al contribuente di verificare se il calcolo è avvenuto in modo corretto (cosa che ben potrebbe avvenire atteso che ogni anno cambia la percentuale). Ecco che allora la giurisprudenza impone la massima trasparenza nella cartella anche in merito agli interessi e consente di fare ricorso.

In questa scia, la Commissione Tributaria di Isernia dice qualcosa in più e chiarisce che la mancanza della data finale del cavolo degli interessi rende illegittima la pretesa di pagamento limitatamente però agli interessi medesimi (in altri termini il capitale resta dovuto).

La legge dispone che gli interessi siano applicati al tasso legale dal giorno successivo alla scadenza del pagamento, sino alla data di consegna al concessionario. Se però la cartella di pagamento non indica la data finale in base al quale è avvenuto il calcolo degli interessi – in modo da consentire al contribuente la verifica della correttezza del conteggio – si viola il diritto di difesa del cittadino. Non è quindi sufficiente l’esposizione dell’anno d’imposta a cui la pretesa si riferisce o le norme in base alle quali gli stessi interessi sono stati calcolati, poiché non compete al contribuente eseguire ricostruzioni particolari e attingere a nozioni giuridiche per conoscere le motivazioni della cartella. In mancanza di una congrua e adeguata motivazione sugli interessi, la cartella di pagamento è nulla (per la parte che concerne i medesimi) [6].

Cartella senza interessi: cosa fare?

Veniamo ai suggerimenti pratici. In caso di cartella senza interessi cosa fare?Innanzitutto, se la cartella ha un valore inferiore a 20mila euro bisogna presentare il reclamo mediazione: si tratta di una notifica preliminare del ricorso all’Agenzia Entrate Riscossione dando termine di 90 giorni per annullare o modificare la pretesa. In caso contrario si può depositare l’atto al giudice competente (giudice di pace per le multe; tribunale ordinario sezione lavoro per le pretese Inps e Inail; commissione tributaria in tutti gli altri casi). Il contribuente dovrà contestare la mancata indicazione dei criteri di calcolo degli interessi e chiedere che il giudice annulli la cartella o, in subordine, i soli interessi. Sarà più probabile quest’ultima soluzione, stando alle sentenze uscite sino ad oggi sul punto. Il ricorso ovviamente può essere arricchito di ulteriori contestazioni, ma sempre limitatamente ai cosiddetti «vizi propri» di cui abbiamo parlato in apertura.

Quando non pagare la cartella: altri vizi propri

Altri vizi propri potrebbero essere:

  • la mancata notifica dell’atto prodromico ossia l’avviso di pagamento da parte dell’ente creditore;
  • la prescrizione del credito prima della notifica della cartella. Il termine varia da tributo a tributo e va da un minimo di 3 anni per il bollo auto, passando per 5 anni per tributi locali (Ici, Imu, Tari, Tasi), contributi previdenziali e contravvenzioni, a 10 anni per Irpef, Iva, canone Rai, Irap (leggi La prescrizione della cartella esattoriale);
  • la decadenza dell’Esattore nella notifica della cartella stessa (di solito tre anni dalla data di iscrizione a ruolo degli importi dovuti).

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