Sono stato amministratore di diritto di una ditta rumena che pagava le tasse in Romania e versava i contributi previdenziali ai propri dipendenti (dato accertato e confermato in causa). Sono accusato di fatturazione soggettivamente falsa, perchè la maggior parte delle ditte a cui veniva ceduta la merce si sono rivelate “cartiere” (secondo la Guardia di Finanza). L’acquirente italiano ha prodotto tutta la documentazione necessaria per identificarlo con certezza in soggetto passivo, abilitato a effettuare acquisti intracomunitari, poiché iscritto al VIES.  Il Maresciallo della Guardia di Finanza al Test del controesame dice che tutti i clienti italiani (cartiere) non acquistavano beni solo dalla mia ditta, ma da molte altre società estere per importi anche superiori. Anche le altre ditte estere hanno commesso un illecito (in quanto “cartiere” il cliente italiano)?

Quello delle “cartiere” è un fenomeno abbastanza diffuso, sia in Italia che nel resto del Mondo.

La Guardia di Finanza, dovendo fare le relative indagini che, in un primo momento, si soffermano in superficie, senza andare a scavare a fondo dei reali rapporti intercorsi tra la società venditrice e quella acquirente, non può fare altro che accendere il campanello d’allarme nei confronti di tutte le autorità giudiziarie competenti al fine di poter costatare l’esistenza o meno di queste fatturazioni effettuate. È poi onere dell’indagato (o imputato) dimostrare di avere fatto tutto il possibile al fine di verificare l’esistenza di quei soggetti giuridici e, conseguentemente, provare la buona fede e l’inesistenza di qualsiasi responsabilità dolosa e/o colposa.

Quello che, si presume, formalmente, contestano è che il lettore – professionista nel settore – abbia protratto colpevolmente questi rapporti commerciali con i “cartieri” in questione, senza approfondire l’esistenza o meno della ditta per la quale operava, della sua sede legale e così via.

Tuttavia, da quanto lo stesso riferisce, l’imperizia contestatagli può essere reclamata in un eventuale giudizio (sia penale che tributario) poiché non può pretendersi da un operatore del settore che, alla vista di offerte reali d’acquisto, di un conto corrente bancario esistente, di fatture regolarmente (almeno per la forma) emesse, di una sede legale e di un VIES esistente, decida di rapportarsi commercialmente con l’acquirente, l’obbligo di effettuare ulteriori indagini, approfondite, volte alla verifica dell’attendibilità o meno dello stesso.

O, quantomeno, non si può pretendere un eccesso di zelo in questa situazione, all’interno della quale il lettore si è trovato a contrattare con altre società che gli hanno richiesto i prodotti trattati dalla sua di azienda, per le quali questi ha emesso regolare fattura e ha ricevuto il pagamento tramite regolare codice IBAN, o assegni mai contestati.

Si deduce che gli accertamenti portati avanti dalla Guardia di Finanza sono stati inviati alla Procura della Repubblica e, con ogni probabilità, ha già ricevuto un avviso di conclusione delle indagini, preludio di un rinvio a giudizio per i reati di cui all’art. 2 e 8 del d.lgs. n. 74/2000: dichiarazione e emissione fraudolenta di fatture per operazioni inesistenti; o un reato a questi affine.

Pertanto, si può ipotizzare (non è dato sapere dal quesito) che il lettore si ritrovi due contestazioni dalle quali difendersi: una tributaria da parte dell’Agenzia delle Entrate e un’altra penale.

Se fosse così, non resterebbe allo stesso che fare ricorso in Commissione Tributaria al fine di contestare quanto imputatogli, così dimostrando che le operazioni effettuate dalla sua società sono state regolari e immuni da qualsiasi vizio imputabile al suo amministratore.

E questo potrà essere dimostrato allegando tutti i documenti relativi alle Società acquirenti, rilevatesi “cartiere”, già in possesso del lettore, oltre che da eventuali testimonianze dei suoi dipendenti che in processo dichiarerebbero come le società, dopo effettivi controlli, risultavano esistenti e concretamente operative.

In sede penale, l’eventuale pendenza del ricorso in sede tributaria sarà vista in maniera più favorevole rispetto ad una contestazione non impugnata.

Inoltre, non si sa a quale periodo risalgano i fatti ma, si presume si tratti di operazioni risalenti a qualche anno fa, pertanto, visti i tempi già passati e quelli che dovranno trascorrere prima del rinvio a giudizio e dell’espletamento dei relativi gradi, ci sono buone possibilità che il reato ascritto al lettore si prescriva.

Questi reati, difatti, rientrano nella fattispecie dei “delitti” e, pertanto, considerando le varie interruzioni processuali (quali ad esempio il rinvio a giudizio) si prescrivono in sette anni e mezzo.

Il periodo di decorrenza, così come confermato da un orientamento unanime della giurisprudenza della Suprema Corte, decorre dall’ultima fattura contestata, ricadente nell’ambito del medesimo periodo di imposta: “Nell’ipotesi di pluralità di fatture fittizie, deve tenersi conto, ai fini del calcolo del termine prescrizionale, stante l’unità del reato previsto dall’art. 8, comma 2, d.lgs. 10 marzo 2000 n. 74, non della data di commissione di ciascun episodio, ma dell’ultimo di essi nell’ambito del medesimo periodo di imposta” (tra le tante, Cassazione penale, sez. III, 04/07/2013, n. 7324).

Pertanto, ci potrebbero essere delle buone probabilità – lentezza della Giustizia permettendo – che i reati contestati si prescrivano nel corso del futuro giudizio.

Tuttavia, anche in questa sede, prescrizione a parte, il lettore dovrà dimostrare con le prove documentali e testimoniali l’eccesso di zelo dallo stesso tenuto, in qualità di amministratore, nell’operare con aziende che, a prima vista, sembravano regolarmente esistenti. A sua discolpa, potrà senza dubbio allegare anche i rapporti commerciali tenuti con altre decine di aziende acquirenti che, a parità di documenti, risultavano effettive e concretamente esistenti.

Con riguardo alle altre società estere che hanno intrattenuto rapporti commerciali con le cartiere italiane in questione, anche loro ne subiranno le conseguenze penali e tributarie a meno che, come nel caso specifico, non dimostrino la buona fede e la mancanza di responsabilità colposa.

Difatti, da come può presumersi, i rapporti commerciali si sono conclusi nel territorio italiano, con la consegna della merce e il pagamento del prezzo, pertanto, il reato si è consumato in Italia; va da sé che, secondo il codice penale, se il reato si dovesse consumare nel territorio italiano, a meno di eccezioni, sarà competente la legge italiana e, così, anche le aziende estere dovranno risponderne dinanzi alle competenti autorità giudiziarie.

Articolo tratto dalla consulenza resa dall’avv. Salvatore Cirilla

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