Per vincere l’accertamento con il redditometro non basta la prova documentale della provenienza dei redditi, ma anche la permanenza degli stessi sul conto per il tempo sufficiente a sopportare le spese elevate.

Quello che ti sto per dire potrà sembrarti assurdo, ma gran parte delle controversie tra contribuente ed Erario dipende da una regola insidiosa: al fisco è consentito presumere che ogni tuo comportamento sospetto nasconde un’evasione. Spetta a te difenderti e dimostrare di essere in regola. Dal semplice sospetto e dalla assenza di prove contrarie discende automaticamente l’accertamento fiscale. E attenzione, se l’Agenzia delle Entrate ti chiede chiarimenti, inviandoti un questionario o una lettera “bonaria” sei costretto a rispondere; se non lo fai o lo fai in ritardo o se non consegni i documenti richiesti non potrai, in un successivo momento, far valere le stesse difese davanti al giudice. Insomma, col fisco si gioca a carte scoperte sin dalla fase precontenziosa ed amministrativa: non sono ammesse le tradizionali strategie difensive da tribunale ben note agli avvocati. Ma allora come sopravvivere a un accertamento fiscale? Ci sono alcune regole da tenere in considerazione e di cui conviene prendere conoscenza prima che arrivi una contestazione.

La prima di queste regole viene suggerita da una recente sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Toscana [1]. Tutte le volte in cui arriva un accertamento mediante redditometro, il contribuente deve innanzitutto dimostrare la provenienza dei soldi con cui ha potuto permettersi l’acquisto contestatogli (ad esempio una casa, un’auto, ecc.); in secondo luogo deve dar prova della giacenza sul conto corrente della predetta somma, giacenza che gli ha consentito, nel tempo, di mantenere un tenore di vita più elevato rispetto alla dichiarazione dei redditi (ad esempio, pagare le spese del bollo auto, dell’assicurazione, ecc.). La prova deve essere necessariamente documentale (ad esempio l’estratto conto).

Un esempio servirà a comprendere meglio la questione. Immaginiamo che un uomo con un reddito piuttosto basso venda una vecchia casa di campagna avuta in eredità e che, con una parte del ricavato, acquisti un’auto di lusso. La restante parte dei soldi viene depositata in banca. Dopo qualche anno, l’Agenzia delle Entrate si fa viva e gli chiede giustificazioni: «Come fai a mantenere un’auto di lusso se guadagni poche centinaia di euro al mese?». A questo punto l’interessato dovrà dimostrare – documenti alla mano – due circostanze: che il prezzo per l’acquisto del veicolo è stato pagato con i soldi derivati dalla vendita dell’immobile e che proprio il possesso di tale reddito nel tempo – in quanto depositato sul conto – ha consentito di pagare le spese necessarie a mantenere il bene di lusso (bollo, benzina, assicurazione, tagliandi, ecc.).

Con parole un po’ più tecniche, già la Cassazione aveva affermato due anni fa lo stesso principio [2]: «Qualora l’ufficio determini sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali, la prova documentale contraria ammessa per il contribuente non riguarda la sola disponibilità di redditi esenti o di redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, ma anche l’entità di tali redditi e la durata del loro possesso, che costituiscono circostanze sintomatiche del fatto che la spesa contestata sia stata sostenuta proprio con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta».

Sinteticamente, per contrastare l’accertamento fiscale con il redditometro non basta la prova documentale della provenienza dei soldi, ma anche la permanenza degli stessi sul conto per il tempo sufficiente a sopportare le spese elevate. Chiaramente i soldi devono provenire da fonte lecita: deve cioè trattarsi di redditi già tassati alla fonte (vincite al gioco, risarcimenti, ecc.) o esenti (donazioni, vendite di beni di seconda mano, ecc.).

La seconda regola per sopravvivere a un accertamento fiscale è quella dell’onere della prova. La prova contraria alle presunzioni del fisco è sempre a carico del contribuente. E non solo: si deve necessariamente trattare di una prova documentale. Le testimonianze – salvo quelle acquisite dalla Finanza nel corso degli accertamenti – non hanno valore processuale. Il che significa che neanche le dichiarazioni sottoscritte di terzi, con tanto di copia della carta di identità e autentica del pubblico ufficiale, possono avere valore contro l’Agenzia delle Entrate. Risultato: quando i trasferimenti di denaro non nascondono alcun tipo di evasione è sempre meglio farli transitare dal conto o con assegni, con strumenti cioè che, anche dopo molto tempo, possono essere tracciati in modo da fornire al fisco la famosa «prova contraria».

Ti consigli in proposito la lettura dell’articolo: Accertamento fiscale: 8 errori da evitare.

La terza regola per sopravvivere a un accertamento fiscale l’abbiamo accennata in apertura: se l’Agenzia delle Entrate ti manda una lettera in cui ti chiede giustificazioni scritte, non dare nulla per scontato e rispondi nei termini indicati. Se non lo fai non potrai più sollevare alcuna difesa nel corso del giudizio davanti alla Commissione Tributaria, non almeno se l’ufficio non ti ha informato chiaramente delle conseguenze a cui, in caso di silenzio, saresti andato incontro. Questo orientamento, sancito di recente dalla Cassazione [3], è certamente una grossa forma di penalizzazione del diritto di difesa. Secondo i giudici, proprio tale avvertimento circa le ripercussioni derivanti dall’omessa o ritardata produzione degli atti richiesti – in quanto costituisce una violazione dell’obbligo di leale collaborazione con il fisco – giustifica una deroga ai principi della Costituzione che garantiscono sempre il diritto di difesa in giudizio. Leggi anche Questionario dell’Agenzia delle Entrate: che succede se non rispondo?

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