Avv. Giampaolo Morini – Se da un lato la disciplina legale dettata dall’art. 1845, 1° co. non prevede alcun obbligo di preavviso da parte della banca, dall’altro, il comportamento della banca recedente, deve essere apprezzato in base principi di correttezza nel rapporto obbligatorio ex art. 1175 e di buona fede nell’esecuzione del contratto di cui all’art. 1375.
I principi di correttezza e buona fede
Attraverso il criterio dell’affidamento è possibile spostare l’attenzione, dall’analisi della fattispecie negoziale, ad un’indagine tesa a verificare se l’esercizio del diritto di recesso sia avvenuto in concreto “secondo buona fede” tenendo conto, sia del fatto che, l’apertura di credito, è istituzionalmente un contratto di durata da eseguirsi mediante più utilizzazioni della disponibilità, sia del fatto che, la banca, è un soggetto dotato di uno status professionale e sul quale grava un obbligo di correttezza “qualificata”.
La Corte di Cassazione è chiara nel ritenere che il Giudice non deve limitarsi al riscontro obiettivo della sussistenza o meno dell’ipotesi tipica di giusta causa di recesso dal rapporto di affidamento, ma, in applicazione del principio di buona fede nell’esecuzione del contratto, deve accertare che il recesso non sia stato esercitato con modalità impreviste ed arbitrarie[1], contro la ragionevole aspettativa dell’accreditato di poter disporre della somma messa a disposizione per il tempo previsto[2]. Sia con riferimento a fattispecie di apertura di credito a tempo indeterminato, che all’ipotesi di contratto a tempo determinato con patto di deroga alla necessità della giusta causa, non rende insindacabile la condotta della banca la quale dovrà pur sempre rispettare il fondamentale e inderogabile principio secondo il quale il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 c.c.). Alla stregua di tale principio, il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, deve ritenersi illegittimo, ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari ovvero tali da contrastare con la ragionevole aspettativa di chi, in base ai comportamenti usualmente tenuti dalla banca ed all’assoluta normalità commerciale dei rapporti in atto, abbia fatto conto di poter disporre della provvista creditizia per il tempo previsto e non potrebbe perciò pretendersi sia pronto in qualsiasi momento alla restituzione delle somme utilizzate, se non a patto di svuotare le ragioni stesse per le quali un’apertura di credito viene normalmente convenuta
La verifica, in concreto, della condotta della banca è rimessa al giudice di merito, la cui valutazione al riguardo, se sorretta da congrua e logica motivazione, non è soggetta al sindacato della Cassazione. Chiaramente dette considerazioni valgono, a maggior ragione, qualora le parti non abbiano derogato alla previsione della necessità della giusta causa, strumento che consente di evitare di incorrere in un abuso del diritto.
Peraltro il sindacato sulla conformità dell’esercizio del potere di recesso al principio di buona fede non ha, come paventato infondatamente dalla corte territoriale, per effetto la sostituzione della regola negoziale con una regola giudiziale, con il conseguente stravolgimento dell’economia del contratto, attenendo tale sindacato non alla validità della clausola, che è data per presupposta, ma al comportamento esecutivo. Infatti, come è stato in altra occasione affermato (sentenza n. 2503 del 1991) in tema di esecuzione del contratto la buona fede si atteggia conte un impegno od obbligo di solidarietà, che impone a ciascuna parte di tenere quei comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali e dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, senza rappresentare un apprezzabile sacrificio a suo carico, siano idonei a preservare gli interessi dell’altra parte.
Data l’indiscussa di debolezza dall’accreditato, parte della dottrina ha individuato una serie di limitazioni al potere pattizio dei contraenti. Un primo profilo è dato dalla necessaria indicazione del termine di preavviso, che pur essendo nella disponibilità delle parti, non essere escluso. Un secondo profilo, limitatamente all’apertura di credito a tempo indeterminato, è dato dalla necessità di una giusta causa per recedere dal rapporto di affidamento. Un terzo profilo, attiene alla valutazione delle concrete modalità dell’esercizio del recesso per cui anche un recesso “giustificato”, qualora esercitato con modalità contrastanti i principi di correttezza e buona fede, potrebbe configurare[5] una responsabilità della banca per “brusca” o “brutale” revoca del credito, con conseguente obbligo di risarcire i danni subiti anche dai creditori dell’impresa finanziata per il procurato dissesto della stessa.
Diviene pertanto essenziale intendere il principio di correttezza e buona fede quale articolazione del principio di solidarietà sociale, che vale a fissare il limite esterno di ogni diritto, impedendone l’abuso, e che, “applicato ai contratti, ne determina integrativamente il contenuto o gli effetti (…) in senso ampliativo o restrittivo rispetto alla fisionomia apparente”[6].
Già la Cass. 15.2.2007 n. 3462 aveva rilevato che l’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza è, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica. Una volta trasfigurato il principio della buona fede sul piano cosituzionale diviene una specificazione degli “inderogabili doveri di solidarietà sociale” imposti dall’art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell’imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge.
Il criterio della buona fede costituisce quindi strumento, per il giudice, per controllare, sia in senso modificativo che integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. Daltrone il criterio della reciprocità lo si desume già dalla Relazione ministeriale al codice civile: il principio di correttezza e buona fede, richiama nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore.
In sintesi, dice la Corte, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato.
La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell’equilibrio e della proporzione.
Pregio della sentenza in commento è di aver individuato che: criterio rivelatore della violazione dell’obbligo di buona fede oggettiva è quello dell’abuso del diritto.
Sempre nella Cass. 15.2.2007 n. 3462 si legge che l’abuso del diritto, non è una violazione in senso formale, ma delinea una utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore.
E’ ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell’atto rispetto al potere che lo prevede.
Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l’ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva.
E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti – ed i diritti connessi – attraverso atti di per sè strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l’ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata.
La Corte ribadisce che nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l’abuso del diritto per le ragioni storiche già trattate, tuttavia rileva che: in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di così pregnante rilevanza è stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimità. [7]
Il criterio della buona fede assume rilevanza non solo come strumento di controllo per il giudice, sia in senso modificativo o integrativo dello statuto negoziale, per garantire, e nel caso, ripristinare un equilibrio degli opposti interessi (Cass. civ. 18 settembre 2009, n. 20106), ma anche come limite interno di ogni situazione giuridica soggettiva, attiva o passiva, contrattualmente attribuita, limite idoneo a concorrere alla conformazione, in senso ampliativo o restrittivo, rispetto alla fisionomia apparente del patto negoziale, dei diritti, e degli obblighi da esso derivanti, affinchè l’ossequio alla legalità formale non si traduca in sacrificio della giustizia sostanziale e non risulti, quindi, disatteso l’inderogabile dovere di solidarietà presidiato dall’art. 2 Cost. repubblicana[8].
Da tale assunto è dunque rilevabile che uno dei profili del principio della correttezza è il dovere di ciascun contraente di tutelare l’utilità e gli interessi dell’altro, purchè non generi un apprezzabile sacrificio di altri valori.
In tale prospettiva la giurisprudenza di questa Corte ha anche di recente ribadito che il principio di correttezza e buona fede – il quale, secondo la Relazione ministeriale al codice civile, “richiama nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore” deve essere inteso in senso oggettivo ed enuncia un dovere di solidarietà, costituzionalmente garantito, che, operando con criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell’imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dagli specifici obblighi contrattuali o legali, sicchè dalla violazione di tale regola di comportamento può discendere, anche di per sè, un danno risarcibile[9].
In materia di sconto, a norma dell’art. 1859 c.c., sussiste il diritto della banca di ottenere dal cliente la restituzione della somma anticipata discende dal contratto, ma diviene attuale ed esercitabile solo a seguito dell’inadempimento del debitore ceduto, il quale opera quale condizione risolutiva dell’erogazione, onde spetta alla banca, che chieda detta restituzione di provare l’inadempienza del terzo[10]
La clausola che preveda il recesso ad nutum della banca se esercitato in modo imprevedibile e arbitrario può vanificare la causa stessa del contratto di sconto giacché nella norma dell’art. 1859 c.c. ricollega il diritto della banca alla restituzione della somma anticipata, appunto al mancato pagamento del terzo. Una clausola che comunque non preveda la sussistenza di una giusta causa di recesso è altresì contraria al principio di buona fede nell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.) ovvero: alla stregua del principio secondo cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 c.c.), non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benché pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma i connotati della imprevedibilità e dell’arbitrarietà. E tali caratteri il recesso in concreto assume allorché sia in contrasto con la ragionevole aspettativa di chi, in base ai comportamenti usualmente tenuti dalla banca e all’assoluta normalità dei rapporti commerciali in atto, abbia fatto conto di poter disporre della provvista redditizia per il tempo previsto onde non potrà pretendersi che egli sia pronto in qualsiasi momento alla restituzione delle somme utilizzate, se non a patto di svuotare le ragioni stesse per le quali un’apertura di credito viene normalmente convenuta.[11]
È quindi essenziale valutare sempre se vi sia stato o meno una violazione degli obblighi di buona fede e correttezza che le parti sono sempre e comunque tenute a rispettare nell’esecuzione del rapporto, e quindi anche lo stesso recesso deve considerarsi illegittimo ove assuma in concreto connotati del tutto imprevisti ed arbitrari. Tale considerazione non si esime dal tenere distinte l’ipotesi per giusta causa dal recesso ad nutum.
Nel primo caso, infatti il recedente è tenuto ad esplicare, all’atto dell’esercizio del diritto, e a dimostrare i sede giudiziale, il motivo posto a fondamento dello scioglimento del vincolo; sarà quindi sulla sussistenza della giusta causa che dovrà esplicarsi il sindacato del Giudice, restando invece irrilevante, ai fini della operatività dell’effetto risolutivo e dell’eventuale risarcimento del danno, l’esistenza di altre ragioni che avrebbero in teoria potuto giustificare la scelta.
Nel secondo caso invece, recesso ad nutum, si tratterà di apprezzare globalmente, secondo le deduzioni delle parti ed alla luce dei principi di correttezza e buona fede, la legittimità del comportamento del recedente; comportamento che l’altro contraente deve dimostrare essere privo di ogni plausibile giustificazione.
A ciò si aggiunga che, la mancanza della giusta causa (art. 1845 c.c.) impedisce il prodursi dell’effetto risolutivo; viceversa, l’arbitrarietà del recesso potestativo sembrerebbe rilevare esclusivamente ai fini risarcitori[12].
Come sopra accennato rileva ai fini della responsabilità della banca nel recedere dal rapporto anche le modalità adottate.
È infatti oggetto di sindacato del Giudice come l’iniziativa di recedere dal rapporto di affidamento sia stata adottata, infatti laddove essa sia stata assunta
con modalità (…) tali da contrastare con la ragionevole aspettativa di chi, in base ai rapporti usualmente tenuti dalla banca ed all’assoluta normalità commerciale dei rapporti in atto, abbia fatto conto di poter disporre della provvista creditizia per il tempo previsto e che non può pretendersi essere pronto in qualsiasi momento alla restituzione delle somme utilizzate[13].
Diversamente si finirebbe per svuotare le ragioni stesse per le quali una apertura di credito è stata concessa.
Tale ultima tesi presenta il pregio di assicurare una sufficiente duttilità e flessibilità alla gestione dei rapporti di credito e di privilegiare una rigida valutazione astratta, incapace di rapportarsi alle esigenze del caso concreto, una verifica della meritevolezza dell’assetto di interessi realizzato nel momento della loro effettiva applicazione, attraverso una indagine che abbia riguardo alle ragioni, ai tempi e alle modalità dell’esercizio del recesso, in relazione a tutte le circostanze esistenti al momento dello svolgimento e dello scioglimento del rapporto[14].
Tale lettura cede ancora una volta il passo alla regole di correttezza e buona fede che rileva non soltanto ai fini della qualificazione della condotta, dunque alla “giustificazione” dell’iniziativa interruttiva, ma anche allo scopo di onerare la banca di un ageresufficientemente cauto ed adeguato a tutte le circostanze di fatto nelle modalità di esercizio del recesso e nello stabilire in concreto le modalità ed i tempi di rientro.
La tesi appena esposta, non rappresenta l’unica ipotesi in cui i Giudici hanno avuto modo di riconoscere la censurabilità di una condotta che sia espressione di un diritto potestativo[15].
Ebbene è la legge stessa, che sancendo il dovere di correttezza non solo in capo al debitore ma anche al creditore (art. 1175 c.c.), attribuisce rilievo all’uso oggettivamente improprio o arbitrario che si faccia del proprio diritto, così come, del resto, si impone nell’agire sociale, in virtù di numerosi precetti costituzionale (es. artt. 2 e 41 Cost.)[16].
La qualificazione in termini di antigiuridicità colpisce la condotta di chi violi un interesse meritevole di tutela non solo nel caso in cui difetti di qualsivoglia situazione soggettiva legittimante ma anche laddove le concrete modalità di esercizio del diritto denotino un supermanto dei limiti che il legittimo uso del medesimo incontrano in funzione della tutela dei diritti concorrenti[17], ovvero quel comportamento che altrimenti “sarebbe lecito esercizio del diritto” cessi di essere tale in quanto “accompagnato da circostanze dequalificanti che lo rendono antigiuridico”[18].
Una tale lettura è in effetti coerente con la relazione al codice civile, che pur non invocando l’abuso del diritto, individua l’essenza del principio di buona fede nel dovere di non ledere gli interessi altrui fuori dalla legittima tutela dell’interesse proprio, indirizzo peraltro già ampiamente recepito in altre materie come quella lavoristica, ed in materia di responsabilità precontrattuale ex art. 1337 c.c..
A maggior ragione non si comprendono le ragioni per cui analoga regola non si possa applicare al caso di recesso da rapporto negoziale già in corso, atteso, per di più, che la facoltà di sciogliere unilateralmente il contratto costituisce pur sempre eccezione al principio sancito dall’art. 1372 c. 2 c.c.[19].
Non può inoltre stupire che criteri simili vadano adottati nelle ipotesi in cui l’inopinato ed intempestivo rispetto delle originarie previsioni negoziale contrasti con le legittime aspettative suscitate dal cliente dalla condotta stabilmente tenuta nell’esecuzione del rapporto.
È inoltre interessante la convergenza tra l’indirizzo succitato ed i principi desumibili dalla normativa in materia di abuso di dipendenza economica L. 18 giugno 1998 n. 192. In fatti si può notare come la giurisprudenza abbia esteso oltre la sua portata originaria il divieto di cui all’art. 9 L. 192/1998, affermandone l’applicabilità “non solo ai rapporti di subfornitura , come definiti dall’art. 1 della medesima legge” ma, “a tutti i rapporti tra imprese”[20] che siano essenziali per lo svolgimento dell’attività del contraente debole e la cui stabilità e protrazione nel tempo susciti in quest’ultimo un affidamento circa la loro regolare prosecuzione, sempre che, a causa della loro interruzione, l’impresa “dipendente” non sia ragionevolmente in grado di reperire nell’immediatezza una valida alternativa sul mercato.
L’abusivo o brutale recesso dal contratto di affidamento da parte della banca
È evidente che laddove si estendesse all’ipotesi dell’abusivo o brutale recesso dal contratto di affidamento da parte della banca, la disciplina dell’abuso ex art. 90 L. 192/1998 sorgerebbe in capo al danneggiato un diritto alla prosecuzione della relazione commerciale, seppur nei limiti di tempo strettamente necessari per far fronte all’imprevisto, mediante ricorso ad altro interlocutore.
Seguendo tale tesi, la banca, anche laddove fosse abilitata a sospendere o revocare l’utilizzo del credito senza preavviso dovrebbe comunque concedere un tempo ragionevole per il rientro, tenuto ovviamente conto dei motivi del recesso, delle altre circostanze del caso concreto e dell’interesse del banchiere ad un sicuro recupero di quanto erogato.
In conclusione si deve pervenire a reprimere le fattispecie che si pongono in palese contrasto con quel criterio di adeguatezza del comportamento agli altrui interessi protetti, criterio che, anche alla luce della relazione al Codice Civile, consente di affermare che l’esercizio di un diritto, di una libertà, di una facoltà o, comunque, la possibilità di trarre un’utilità dalla propria attività, trova un limite insormontabile nel ” dovere di non ledere gli interessi altrui al di fuori dei limiti della legittima tutela dell’interesse proprio” e, quindi, nel divieto, sia di strumentalizzare i propri diritti o le proprie libertà allo scopo esclusivo di nuocere ad altri, sia di esercitarli con modalità tali da integrare un eccesso di tutela dei propri interessi, incompatibile con le altrui posizioni soggettive giuridicamente protette.
Tale conclusione appare tanto più calsante alla materia bancaria se si tiene conto della impostazione giuspubblicistica dell’ordinamento del credito (art. 41 e 47 della Cost.).